REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
N.
Reg.Dec.
N. 7314 Reg.Ric.
ANNO 2005
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione
Sesta) ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello proposto da Soile Lauti,
rappresentata e difesa dall’avv. Luigi Ficarra e dall’avv. Corrado Mauceri,
ed elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio dell’avv. Fausto
Buccellato, viale Angelico, n. 45,
contro
il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della
Ricerca, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato,
presso i cui uffici è per legge domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n.
12,
e nei confronti
di Paolo Bonato, in proprio e quale genitore della minore
Laura Bonato, e di Linicio Bano, nella qualità di Presidente della
Associazione Italiana Genitori (A.GE.), rappresentati e difesi dall’avv.
prof. Franco Gaetano Scoca, ed elettivamente domiciliati presso il suo
studio in Roma, via G. Paisiello, n. 55,
dell’Associazione Forum, rappresentata e difesa dall’avv.
Ivone Cacciavillani, il quale agisce oltre che in qualità di presidente
dell’Associazione, in proprio uti civis ex art. 86 c.p.c., e dagli
avv. ti Sergio Dal Prà e Luigi Manzi, ed elettivamente domiciliata in Roma
presso lo studio di quest’ultimo, in via Federico Confalonieri, n. 5,
per l'annullamento
della sentenza n. 1110 del 2005 del Tribunale
Amministrativo Regionale per il Veneto, sez. III, resa inter partes.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio delle parti
intimate;
Visti gli appelli incidentali del Ministero
dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, di Paolo Bonato e di
Linicio Bano, e dell’Associazione Forum;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle
rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 13 gennaio 2006 , relatore il
Consigliere Sabino Luce, uditi l’avv. Buccellato per delega dell’avv.
Mauceri, l’Avvocato dello Stato Palatiello, l’avv. Giusti per delega
dell’avv. Scoca, e l’avv. Luigi Manzi.
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto
segue.
FATTO
1.- Premette la ricorrente di avere, in proprio e quale
madre dei minori Dataico e Sami Albertin, alunni, all’epoca, della scuola
media “Vittorino da Feltre” di Abano Terme, chiesto innanzi al TAR Veneto
l’annullamento della deliberazione del 27 maggio 2002 del Consiglio di
Istituto, nella parte in cui respinge la proposta di escludere tutte le
immagini e i simboli di carattere religioso negli ambienti scolastici in
ossequio al principio di laicità dello Stato, lasciandoli esposti nelle
aule, sulla base dei seguenti motivi: a) violazione del principio di laicità
dello Stato (artt. 3 e 19 della Costituzione, art. 9 della Convenzione dei
diritti dell’uomo, resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, 848);
b) violazione del principio di imparzialità della Amministrazione (art. 97
della Costituzione).
Il TAR Veneto, con ordinanza n. 56 del 13 novembre 2003,
previa reiezione delle eccezioni pregiudiziali (il ricorso è stato proposto
da un solo genitore dei minori Albertin; difetto di giurisdizione del
giudice amministrativo; mancata notifica ad almeno uno dei controinteressati;
non è stata impugnata la circolare del 3 ottobre 2002 del Ministero
dell’Istruzione, con la quale è stata raccomandata l’esposizione del
crocefisso a cura dei dirigenti scolastici), ha sospeso il giudizio e
rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità degli artt.
159 e 190 del Testo Unico n. 297 del 16 aprile 1994, come specificati
rispettivamente dall’art. 119 del r.d. 26 aprile 1928, n. 1297 (all. C) e
dall’art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965, nella parte in cui includono
il crocefisso tra gli arredi delle aule scolastiche, nonché del predetto T.
U. nella parte in cui conferma la vigenza delle disposizioni di cui all’art.
119 del r.d. 26 aprile 1928, n. 1297 (tab. C) e all’art. 118 del r.d. 30
aprile 1924, n. 965, in riferimento al principio di laicità dello Stato e,
comunque, agli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione.
Con ordinanza del 13 dicembre 2004, n. 389, la Corte
Costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di
costituzionalità, sollevata dal TAR, in quanto concernente norme
regolamentari (i citati artt. 118 e 119), la cui attuale vigenza il TAR
erroneamente assume che si ricavi dall’art. 676 del T. U. del 1994, “perché
la eventuale salvezza, ivi prevista, di norme non incluse nel testo unico, e
non incompatibili con esso, può concernere solo disposizioni legislative e
non disposizioni regolamentari, essendo solo le prime riunite e coordinate
nel testo unico medesimo, in conformità alla delega…”.
Con la sentenza, di cui viene chiesta la riforma, il TAR
Veneto, previa reiezione delle eccezioni sollevate in giudizio dalla
Amministrazione e dall’interveniente, ha estromesso dal giudizio la
Associazione Forum e la Associazione Genitori di Padova, e ha respinto il
ricorso con una motivazione che viene definita dalla appellante “del tutto
originale, perché non rispecchia alcuna delle ragioni sostenute dalle parti,
e comunque errata”.
Con l’odierno ricorso, vengono reiterate le censure di
primo grado in forma strettamente embricata con le argomentazioni del TAR, e
si insiste particolarmente sulla abrogazione implicita dell’art. 118 (non
119) del r. d. 965/1924 ad opera del successivo testo unico, che ha regolato
tutta la materia senza riprodurlo, e della legge n. 121/1985 di ratifica del
nuovo concordato, che ha cancellato la norma che ne costituiva il
fondamento, cioè l’art. 1 dello Statuto Albertino.
In ogni caso – si sostiene – l’esposizione del crocefisso
nelle aule scolastiche è incompatibile col principio costituzionale della
laicità dello Stato.
2.- Resiste il Ministero della Istruzione,
dell’Università e della Istruzione, il quale sostiene l’infondatezza
dell’appello, e propone comunque ricorso incidentale condizionato avverso le
statuizioni della sentenza, con le quali: a) è stata riconosciuta la
giurisdizione del giudice amministrativo; b) è stato dichiarato ammissibile
il ricorso, nonostante la mancata notifica ad almeno un controinteressato, e
nonostante la ricorrente, in proprio, non fosse componente della vita
scolastica, ed avesse proposto l’impugnativa quale genitrice dei due minori,
senza il manifesto accordo del padre (che pure partecipò alla riunione del
Consiglio di Classe), che è esercente la potestà; c) non è stato considerato
che la mancata impugnativa dell’art. 118 del r.d. n. 965/1924 farebbe in
ogni caso sopravvivere la contestata deliberazione del Consiglio di
Istituto.
Si sono anche costituiti Paolo Bonato, in proprio e quale
genitore della minore Laura Bonato, e Linicio Bano, in qualità di Presidente
dell’A.GE. (Associazione Italiana Genitori) di Padova, intervenuta in
giudizio, i quali chiedono la riforma della sentenza impugnata nella parte
in cui statuisce l’estromissione dal giudizio della A. GE. e ritiene
ammissibile il ricorso, sebbene non notificato ad almeno un
controinteressato.
Si è altresì costituita l’Associazione Forum, la quale
chiede, con l’appello incidentale proposto, la reiezione del gravame e la
riforma della sentenza nella parte in cui dichiara inammissibile il suo
intervento, e non declina a favore del giudice ordinario la giurisdizione in
un giudizio che ha per oggetto un diritto fondamentale della personalità.
L’eccezione, come precisato in memoria, viene sviluppata in ricorso senza
pervenire alla conclusione in calce allo stesso che l’impugnativa debba
essere dichiarata inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo. Per questo, si rimanda alla formale proposizione (in forma
condizionata) della medesima eccezione da parte della Avvocatura dello
Stato, e si invita la Sezione a pronunciarsi “anche ufficiosamente”.
3.- Il ricorso è stato trattenuto in decisione
all’udienza del 13 gennaio 2006.
DIRITTO
1.- Il giudizio verte sulla legittimità della
deliberazione del Consiglio di Istituto della scuola media statale
“Vittorino da Feltre” di Abano Terme, con la quale è stata respinta la
richiesta della ricorrente di rimuovere il crocefisso dalle aule
scolastiche. Il TAR Veneto, con la sentenza appellata, ha respinto il
ricorso, dichiarandolo infondato, dopo avere estromesso dal giudizio le due
associazioni (A.GE. e Forum) che erano intervenute ad opponendum.
2.- Il Collegio deve darsi carico delle questioni
preliminari che sono state sollevate dalle parti o sono rilevabili di
ufficio.
In primo luogo, va verificato se sia ammissibile
l’impugnativa proposta dalla sola ricorrente, quale esercente la potestà sui
minori Dataico e Sami Albertin, senza la partecipazione dell’altro genitore.
In proposito, il Collegio rileva che il ricorso risulta
proposto da uno solo dei due genitori, esercenti la potestà sui minori, a
tutela di scelte educative che ciascun genitore può assumere, senza la
necessità di un intervento dell’altro genitore. Proprio per la diretta
inerenza del ricorso a scelte educative, non si configurano, infatti, gli
estremi della straordinaria amministrazione, rispetto alla quale l’art.320
c.c. richiede l’azione congiunta di entrambi i genitori (cfr. Tar Calabria,
sez. Reggio Calabria, 13 dicembre 1984, n. 287; Tar Abruzzo, sez. Pescara,
10 maggio 1984, n. 157).
In secondo luogo, deve essere affermata la giurisdizione
del giudice amministrativo rispetto alla controversia in esame. La
giurisdizione del giudice amministrativo è stata posta in discussione, nel
corso del giudizio, dalla Amministrazione appellata e da una delle
Associazioni intervenute (ed estromesse dal giudice di primo grado), le
quali hanno sostenuto che la controversia avrebbe per oggetto la tutela di
un diritto di libertà, diritto soggettivo perfetto, di competenza del
giudice ordinario. Anche l’appellante ha richiamato questa qualificazione
per la sua posizione soggettiva, pur concludendo a favore della
giurisdizione amministrativa, perché il ricorso era stato proposto prima
della sentenza n. 204/2004 della Corte Costituzionale (che ha ridimensionato
la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di pubblici
servizi), e, in base all’art. 5 c.p.c., la sentenza della Corte non
priverebbe di giurisdizione il giudice adito ritualmente alla stregua delle
leggi in vigore al momento della proposizione del ricorso.
Il Collegio rileva che rispetto a situazioni di interesse
che sono in relazione con diritti fondamentali della persona, come per
esempio il diritto alla salute (che è stato oggetto di maggiore elaborazione
giurisprudenziale), non si può e non si deve escludere a priori la
sussistenza della giurisdizione amministrativa.
Quando la vertenza ha come oggetto la contestazione della
legittimità dell’esercizio del potere amministrativo, ossia quando l’atto
amministrativo sia assunto nel giudizio non come fatto materiale o come
semplice espressione di una condotta illecita, ma sia considerato nel
ricorso quale attuazione illegittima di un potere amministrativo, di cui si
chiede l’annullamento, la posizione del cittadino si concreta come posizione
di interesse legittimo.
Queste considerazioni sono state fatte proprie da tempo
sia dalla giurisprudenza amministrativa che dalla Corte regolatrice della
giurisdizione. Si veda, per esempio, Cass. sez. un. civ. 15 ottobre 1998, n.
10186, che, nel giudizio proposto a tutela del diritto alla salute in
relazione a immissioni sonore prodotte da un’attività autorizzata
dall’amministrazione, ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario
“poiché l’azione … non investe nessun provvedimento amministrativo”. Le
Sezioni unite ribadiscono che la circostanza che il cittadino agisca
lamentando la violazione della legge da parte dell’amministrazione - e nel
caso in esame l’azione era proposta a tutela di un diritto fondamentale –
non è discriminante ai fini della giurisdizione, risultando invece decisiva
la circostanza che l’azione sia diretta (o meno) contro un provvedimento
amministrativo. Questa conclusione è coerente con la giurisprudenza costante
dei giudici amministrativi che riconoscono la giurisdizione amministrativa
per vertenze, come quelle in tema di impianti per lo smaltimento dei
rifiuti, o di altre opere rilevanti per la salubrità dell’ambiente, rispetto
ai quali venga contestata la legittimità dei provvedimenti autorizzatori. La
circostanza che in questi casi i ricorrenti facciano valere la possibilità
di un pregiudizio alla salute non toglie nulla alla configurabilità di una
posizione di interesse legittimo, e, conseguentemente, della giurisdizione
amministrativa.
Va osservato, inoltre, che la concezione dei diritti
“perfetti” o “non degradabili” è stata elaborata per riconoscere ulteriori
possibilità di tutela per il cittadino, non certo per escludere forme di
tutela preesistenti. Di conseguenza da tale concezione non si può desumere
alcuna riduzione della legittimazione a ricorrere avanti al giudice
amministrativo.
Deve essere tenuto presente, ancora, che in discussione
sono atti riconducibili all’espressione di una potestà regolamentare
dell’Amministrazione, potestà quindi tipicamente discrezionale. Rispetto a
potestà del genere, la Corte regolatrice della giurisdizione, di recente, ha
confermato che la tutela è devoluta al giudice amministrativo, anche se la
controversia inerisca al diritto alla salute (Cass. Sez. un. 28.10.2005, n.
20994).
Risulta, pertanto, assorbita ogni questione relativa alla
interpretazione dell’art. 5 c.p.c., di cui l’appellante propone una lettura
difforme dagli orientamenti maggioritari della giurisprudenza sia civile che
amministrativa.
In terzo luogo, va esaminata l’eccezione di
inammissibilità del ricorso (già disattesa dal primo giudice) per essere
stata omessa la notifica ad almeno uno dei controinteressati.
L’eccezione risulta infondata, perché dal tenore
dell’atto impugnato non sono identificabili controinteressati in senso
proprio.
In quarto luogo, diversamente da quanto statuito dal
giudice di primo grado, devono ritenersi ammissibili gli interventi in
giudizio proposti dalle due associazioni, Forum ed A. GE.
Non è dubbio che le due Associazioni, con il loro
intervento, hanno manifestato un interesse simmetrico a quello della
ricorrente, e, pertanto, ugualmente meritevole di essere fatto valere in
giudizio. Un tale interesse è titolo sufficiente per intervenire in
giudizio, senza la necessità di ulteriori specificazioni. L’utilità che può
derivare alle due associazioni intervenute dalla conservazione dell’atto
impugnato non è certamente di ordine patrimoniale, ma è parimenti di
assoluto rilievo giuridico, perché è riconducibile al medesimo ordine di
interessi, anche se di segno contrario, fatti valere dalla ricorrente.
Da ultimo, non può essere condivisa l’eccezione di
inammissibilità formulata dalla difesa della Amministrazione, per il fatto
che non sarebbe stato impugnato ritualmente l’art. 118 r.d. n. 965/1924, dal
quale deriverebbe l’obbligo di esposizione del crocefisso nelle aule
scolastiche.
È sufficiente osservare che dal tenore del ricorso si
coglie immediatamente come la contestazione sia proposta anche nei confronti
della citata norma regolamentare, la cui impugnazione non richiedeva,
d’altronde, formule sacramentali.
3.- Passando al merito, il ricorso è infondato.
L’appellante in via prioritaria reitera il rilievo,
disatteso dal TAR, della abrogazione implicita della norma dell’art. 118 r.
d. 1924 n. 965 (ritiene di non doversi parlare dell’art. 119 del r. d. n.
1297/1928 in quanto si riferisce alla scuola elementare, mentre i figli
minori frequentano la scuola media), non essendo essa stata “riprodotta” dal
t. u. del 1994, disciplinante l’intera materia, ed essendo altresì venuto
meno il principio di confessionalità, sancito dall’art. 1 dello Statuto
Albertino, che ne rappresentava il fondamento, in quanto tale norma
statutaria non è stata ripresa dalla legge n. 121/1985 di attuazione
dell’accordo di Villa Madama, diversamente da quanto avvenne con la legge
810 del 1929 di attuazione del Trattato del Laterano.
Circa la prima considerazione dell’appellante, vale
quanto statuito dalla Corte Costituzionale sul carattere regolamentare della
norma di cui all’art. 118 r. d. 1924 n. 965, che, come tale, non può
ritenersi assorbita dal t. u. 1994 (giacché se tale fosse stata, la Corte
non avrebbe potuto esimersi dal giudicare della sua legittimità), e neppure
abrogata (e la stessa Corte nella sua ordinanza non ne ha mai messo in
discussione la vigenza).
Quanto alla seconda considerazione, non pare corretto
porre il principio di confessionalità dello Stato a fondamento della norma
regolamentare in questione (sicché venuto meno quello sarebbe venuta meno la
ragion d’essere di questa). È ben vero infatti che nel 1924, allorché la
norma fu emanata vigeva in Italia lo Statuto Albertino, il cui art. 1
proclamava la religione cattolica, apostolica e romana come “la sola
religione dello Stato” (gli altri culti essendo tollerati conformemente alle
leggi); ma è altrettanto vero che tale norma non impedì minimamente al
legislatore, nel corso di vari decenni, di adottare in molteplici settori
della vita dello Stato una normativa contraria agli interessi della
confessione cattolica, ed in dottrina ad alcuni autori, anche assai
qualificati, di ascrivere la Chiesa cattolica fra le associazioni illecite.
Il problema della vigenza dell’art. 118 r. d. 1924 n. 965
non può pertanto essere adeguatamente risolto attraverso la mancata menzione
nell’accordo di Villa Madama di un principio (quello della confessionalità
dello Stato), richiamato nel trattato del Laterano nel 1929 (vale a dire
cinque anni dopo l’emanazione della norma stessa), ma va affrontato
attraverso la verifica della compatibilità di quanto da esso disposto con i
principi oggi ispiranti l’ordinamento costituzionale dello Stato, ed in
particolare con il principio di laicità, invocato dalla stessa appellante.
Al riguardo, più volte la Corte costituzionale ha
riconosciuto nella laicità un principio supremo del nostro ordinamento
costituzionale, idoneo a risolvere talune questioni di legittimità
costituzionale (ad esempio, tra le tante pronunce, quelle riguardanti norme
sull’obbligatorietà dell’insegnamento religioso nella scuola, o sulla
competenza giurisdizionale per le cause concernenti la validità del vincolo
matrimoniale contratto canonicamente e trascritto nei registri dello stato
civile).
Trattasi di un principio non proclamato expressis
verbis dalla nostra Carta fondamentale; un principio che, ricco di
assonanze ideologiche e di una storia controversa, assume però rilevanza
giuridica potendo evincersi dalle norme fondamentali del nostro ordinamento.
In realtà la Corte lo trae specificamente dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20
Cost.
Il principio utilizza un simbolo linguistico (“laicità”)
che indica in forma abbreviata profili significativi di quanto disposto
dalle anzidette norme, i cui contenuti individuano le condizioni di uso
secondo le quali esso va inteso ed opera. D’altra parte, senza
l’individuazione di tali specifiche condizioni d’uso, il principio di
“laicità” resterebbe confinato nelle dispute ideologiche e sarebbe
difficilmente utilizzabile in sede giuridica.
In questa sede, le condizioni di uso vanno certo
determinate con riferimento alla tradizione culturale, ai costumi di vita,
di ciascun popolo, in quanto però tale tradizione e tali costumi si siano
riversati nei loro ordinamenti giuridici. E questi mutano da nazione a
nazione.
Così non v’è dubbio che in un modo vada inteso ed opera
quel principio nell’ordinamento inglese, laico, benché strettamente avvinto
alla chiesa anglicana, nel quale è consentito al legislatore secolare
dettare norme in materie interne alla chiesa stessa (esempio relativamente
recente è dato dalla legge sul sacerdozio femminile); in altro modo
nell’ordinamento francese, per il quale la laicità, costituzionalmente
sancita (art. 2 Cost. del 1958), rappresenta una finalità che lo Stato potrà
perseguire, e di fatto ha perseguito, anche con mortificazione
dell’autonomia organizzativa delle confessioni (lois Combes) e della
libera espressione individuale della fede religiosa (legge
sull’ostensione dei simboli religiosi); in altro modo ancora
nell’ordinamento federale degli Stati Uniti d’America, nel quale la pur
rigorosa separazione fra lo Stato e le confessioni religiose, imposta dal I
emendamento alla Costituzione federale, non impedisce un diffuso pietismo
nella società civile, ispirato alla tradizione religiosa dei Padri
pellegrini, che si esplica in molteplici forme anche istituzionali (da
un’esplicita attestazione di fede religiosa contenuta nella carta moneta -
in God we trust -, al largo sostegno tributario assicurato agli aiuti
economici elargiti alle strutture confessionali ed alle loro attività
assistenziali, sociali, educative, nell’orizzonte liberal privatistico
tipico della società americana); in altro modo, infine, nell’ordinamento
italiano, in cui quel simbolo linguistico serve ad indicare reciproca
autonomia fra ordine temporale e ordine spirituale e conseguente
interdizione per lo Stato di entrare nelle faccende interne delle
confessioni religiose (artt. 7 e 8 Cost.); tutela dei diritti fondamentali
della persona (art. 2), indipendentemente da quanto disposto dalla religione
di appartenenza; uguaglianza giuridica fra tutti i cittadini, irrilevante
essendo a tal fine la loro diversa fede religiosa (art. 3); rispetto della
libertà delle confessioni di organizzarsi autonomamente secondo i propri
statuti purché non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano (art. 8,
2° co.), e per tutti, e non solo per i cittadini, tutela della libertà in
materia religiosa, e cioè di credere, non credere, di manifestare in
pubblico o in privato la loro fede, di esercitarne il culto (art. 19);
divieto, infine, di discriminare gli enti confessionali a motivo della loro
ecclesiasticità e del fine di religione o di culto perseguito (art. 20).
Dalle norme costituzionali italiane richiamate dalla Corte per delineare la
laicità propria dello Stato si evince, inoltre, un atteggiamento di favore
nei confronti del fenomeno religioso e delle confessioni che lo propugnano,
avendo la Costituzione posto rilevanti limiti alla libera esplicazione della
attività legislativa dello Stato in materia di rapporti con le confessioni
religiose; attività che potrà praticarsi ordinariamente soltanto in forma
concordata sia con la religione di maggioranza sia con le altre confessioni
religiose (art. 7, 2° co., e art. 8, 3° co.).
Ne deriva che la laicità, benché presupponga e richieda
ovunque la distinzione fra la dimensione temporale e la dimensione
spirituale e fra gli ordini e le società cui tali dimensioni sono proprie,
non si realizza in termini costanti nel tempo e uniformi nei diversi Paesi,
ma, pur all’interno di una medesima “civiltà”, è relativa alla
specifica organizzazione istituzionale di ciascuno Stato, e quindi
essenzialmente storica, legata com’è al divenire di questa
organizzazione (in modo diverso, ad esempio, dovendo essere intesa la
laicità in Italia con riferimento allo Stato risorgimentale, ove, nonostante
la confessionalità di principio dello stesso, proclamata dallo Statuto
fondamentale del Regno, furono consentite discriminazioni restrittive in
danno degli enti ecclesiastici, e con riferimento allo Stato odierno, sorto
dalla Costituzione repubblicana, ed ormai non più confessionale, ove però
quelle discriminazioni non potrebbero aversi).
Quale poi dei sistemi giuridici ora ricordati, o di altri
ancora qui non considerati, sia meglio rispondente ad un’idea astratta di
laicità, che alla fine coincide con quella che ciascuno trova più consona
con i suoi postulati ideologici, è questione antica; una questione che però
va lasciata alle dispute dottrinarie.
In questa sede giurisdizionale, per il problema innanzi
ad essa sollevato della legittimità della esposizione del crocifisso nelle
aule scolastiche, disposto dalle autorità competenti in esecuzione di norme
regolamentari, si tratta in concreto e più semplicemente di verificare se
tale imposizione sia lesiva dei contenuti delle norme fondamentali del
nostro ordinamento costituzionale, che danno forma e sostanza al principio
di “laicità” che connota oggi lo Stato italiano, ed al quale ha fatto più
volte riferimento il supremo giudice delle leggi.
È evidente che il crocifisso è esso stesso un simbolo che
può assumere diversi significati e servire per intenti diversi; innanzitutto
per il luogo ove è posto.
In un luogo di culto il crocifisso è propriamente ed
esclusivamente un “simbolo religioso”, in quanto mira a sollecitare
l’adesione riverente verso il fondatore della religione cristiana.
In una sede non religiosa, come la scuola, destinata
all’educazione dei giovani, il crocifisso potrà ancora rivestire per i
credenti i suaccennati valori religiosi, ma per credenti e non credenti la
sua esposizione sarà giustificata ed assumerà un significato non
discriminatorio sotto il profilo religioso, se esso è in grado di
rappresentare e di richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile
ed intuibile (al pari di ogni simbolo) valori civilmente rilevanti, e
segnatamente quei valori che soggiacciono ed ispirano il nostro ordine
costituzionale, fondamento del nostro convivere civile. In tal senso il
crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte “laico”, diverso da quello
religioso che gli è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a
prescindere dalla religione professata dagli alunni.
Ora è evidente che in Italia, il crocifisso è atto ad
esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine
religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione
della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua
libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di
solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la
civiltà italiana.
Questi valori, che hanno impregnato di sé tradizioni,
modo di vivere, cultura del popolo italiano, soggiacciono ed emergono dalle
norme fondamentali della nostra Carta costituzionale, accolte tra i
“Principi fondamentali” e la Parte I della stessa, e, specificamente, da
quelle richiamate dalla Corte costituzionale, delineanti la laicità propria
dello Stato italiano.
Il richiamo, attraverso il crocifisso, dell’origine
religiosa di tali valori e della loro piena e radicale consonanza con gli
insegnamenti cristiani, serve dunque a porre in evidenza la loro
trascendente fondazione, senza mettere in discussione, anzi ribadendo,
l’autonomia (non la contrapposizione, sottesa a una interpretazione
ideologica della laicità che non trova riscontro alcuno nella nostra Carta
fondamentale) dell’ordine temporale rispetto all’ordine spirituale, e senza
sminuire la loro specifica “laicità”, confacente al contesto culturale fatto
proprio e manifestato dall’ordinamento fondamentale dello Stato italiano.
Essi, pertanto, andranno vissuti nella società civile in modo autonomo (di
fatto non contraddittorio) rispetto alla società religiosa, sicché possono
essere “laicamente” sanciti per tutti, indipendentemente dall’appartenenza
alla religione che li ha ispirati e propugnati.
Come ad ogni simbolo, anche al crocifisso possono essere
imposti o attribuiti significati diversi e contrastanti, oppure ne può
venire negato il valore simbolico per trasformarlo in suppellettile, che può
al massimo presentare un valore artistico. Non si può però pensare al
crocifisso esposto nelle aule scolastiche come ad una suppellettile, oggetto
di arredo, e neppure come ad un oggetto di culto; si deve pensare piuttosto
come ad un simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori
civili sopra richiamati, che sono poi i valori che delineano la laicità
nell’attuale ordinamento dello Stato.
Nel contesto culturale italiano, appare difficile trovare
un altro simbolo, in verità, che si presti, più di esso, a farlo; e
l’appellante del resto auspica (e rivendica) una parete bianca, la
sola che alla stessa appare particolarmente consona con il valore della
laicità dello Stato.
La decisione delle autorità scolastiche, in esecuzione di
norme regolamentari, di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, non
appare pertanto censurabile con riferimento al principio di laicità proprio
dello Stato italiano.
La pretesa che lo Stato si astenga dal presentare e
propugnare in un luogo educativo, attraverso un simbolo (il crocifisso),
reputato idoneo allo scopo, i valori certamente laici, quantunque di origine
religiosa, di cui è pervasa la società italiana e che connotano la sua Carta
fondamentale, può semmai essere sostenuta nelle sedi (politiche, culturali)
giudicate più appropriate, ma non in quella giurisdizionale.
In questa sede non può, quindi, trovare accoglimento la
richiesta dell’appellante che lo Stato e i suoi organi si astengano dal fare
ricorso agli strumenti educativi considerati più efficaci per esprimere i
valori su cui lo Stato stesso si fonda e che lo connotano, raccolti ed
espressi dalla Carta costituzionale, quando il ricorso a tali strumenti non
solo non lede alcuno dei principi custoditi dalla medesima Costituzione o
altre norme del suo ordinamento giuridico, ma mira ad affermarli in un modo
che sottolinea il loro alto significato.
In conclusione, va respinto l’appello principale, e vanno
accolti gli appelli incidentali delle associazioni A. GE. e Forum nella
parte in cui reclamano l’ammissibilità del loro intervento in giudizio .
Le spese e gli onorari di giudizio possono essere
compensati.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione
Sesta, ammette l’intervento in giudizio delle Associazioni A. GE. e Forum, e
respinge il ricorso in epigrafe. Compensa le spese.
Ordina che la presente decisione sia eseguita
dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2006 dal Consiglio di
Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) nella Camera di Consiglio con
l'intervento dei Signori:
Giorgio Giovannini Presidente
Sabino Luce Consigliere rel.
Giuseppe Romeo Consigliere est.
Lanfranco Balucani Consigliere
Domenico Cafini Consigliere
Presidente
Giorgio Giovannini
Consigliere Segretario
Giuseppe Romeo Giovanni Ceci